
C’era una volta una principessa che era nata bionda e combattiva ed era nata anche bambina e, come tutti gli altri bambini sani del mondo (più o meno) era perfettamente dotata di tutto ciò che le serviva per vivere. Aveva due occhi vispi, un cuore sano, una bella testa (molto ostinata, e per fortuna) due mani, due braccia, due piedi e due gambe. Un giorno, e ci sarebbe quasi da mettersi alla ricerca della strega cattiva che le ha fatto l’incantesimo, si svegliò da una malattia che sembrava un’influenza con due mani, due braccia, due piedi e due gambe di meno. Tutto amputato per assicurarle un futuro in questo mondo e non nell’altro.
Questa principessa, che ancora era convinta di essere una bambina, aveva appena 11 anni e doveva imparare a vivere senza. Senza quello che per tutti è scontato e banale: due mani, due braccia, due piedi e due gambe. Si narra che appena messo il naso fuori dall’ospedale accettò di buon grado la fisioterapia e che, non appena furono pronte le sue protesi, ritornò al suo grande amore. Che non era un principe azzurro (ci sono principesse che sanno farne a meno) ma la scherma. E fu proprio quel giorno, quello in cui, seduta su una sedia a rotelle prese la sua spada (o fioretto o quel che è, abbiate pazienza) e si applicò a maneggiarla con una protesi attaccata a quello che le restava di un braccio, che quella spada si trasformò in uno scettro capace di rompere l’incantesimo che la voleva inabile o disabile, come preferite.
La polvere magica che rese tutto questo possibile, la principessa, se la tirò fuori dal cuore, dallo stomaco, dal cervello e dai reni: da ogni singola fibra del suo nuovo corpo. Era fatta, la polvere, di determinazione, coraggio e forza. Era talmente magica che le permise di arrivare in cima al mondo a conquistare definitivamente il cuore del suo principe. Arrivò in cima a Olimpia e lo fece ridendo di un bel sorriso che le partiva dalla bocca e le finiva negli occhi. Quel sorriso così sincero e aperto che solo chi ha zampettato sul limite dell’inferno è capace di allargare. Noi comuni mortali, noi che zigzaghiamo tra la quotidianità delle umane sfighe, quel sorriso lì non lo potremo avere mai. È il sorriso dei sopravvissuti, dei naufraghi dati per morti che hanno resistito alle onde e agli squali. (19/10/2016 16:00 Deborah Dirani Donna, prima. Giornalista, poi)
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