di Alina Rizzi
Essere                      madri, essere scrittrici. Molte donne lo hanno ritenuto impossibile.                      Altre, forse, non si sono poste l’interrogativo e hanno                      proseguito senza tentennamenti il loro percorso artistico.                      Molte avrebbero voluto essere madri, e scriverne magari, ma                      il destino ha scelto diversamente per loro.
 Penso a Katherine Mansfield, il cui desiderio di maternità                      ricorre in tutto il diario. Penso ad Anais Nin, sì,                      la trasgressiva Anais Nin, che perse la sua bambina prima                      della nascita ed ebbe il coraggio di scriverne in un racconto                      struggente. Penso a Sibilla Aleramo che, malmenata da un marito                      ricco e violento, in tempi ben lontani dal divorzio, la costrinse                      a salvarsi ( e a salvare la sua scrittura) fuggendo lontano                      e abbandonando il suo bambino di tre anni. 
 Alcuni biografi ritengono che Virginia Woolf non abbia mai                      avuto figli per scelta del marito, che non la “ritenne”                      in grado, cioè abbastanza forte psicologicamente ed                      emotivamente, di “sopportare” una gravidanza e                      la maternità. Certo lei faceva spesso dell’ironia                      su alcune coppie che frequentava e che, ai suoi occhi, non                      sapevano far altro che raccontare noiosamente di figli e problemi                      domestici, però, non possiamo proprio sapere quanto                      la sua ironia fosse dettata da un’autentica critica                      piuttosto che da un sottile rimpianto.
 Ci sono tante scrittrici note e apprezzate che sono diventate                      madri e tante altre che hanno scelto di non vivere questa                      esperienza. Raramente però il discorso viene affrontato                      fuori da ogni retorica. Difficile scoprire cosa attraversa                      la mente della donna-artista quando diviene madre. Di solito                      il tema viene bay-passato come troppo personale e intimo per                      darlo in pasto al pubblico, oppure, ipotizzo, perché                      ancora troppo scabroso. Cioè difficile, complesso e                      molto spesso conflittuale, soprattutto quando eventuali dubbi                      e/o ripensamenti non possono che apparire politicamente scorretti                      persino ai nostri giorni. Eh sì, perché una                      madre che rimpiange il suo tempo libero e creativo, una madre                      che dubita di aver fatto la scelta migliore, una madre che                      non è pronta ad accantonare, almeno temporaneamente,                      il suo personale progetto di vita per dedicarsi al figlio                      è tutt’oggi, inutile negarlo, una madre altamente                      criticata e criticabile, non solo dalla società ma                      anche dalle altre donne. Sarebbe bello allora se scrittrici                      contemporanee, artiste di oggi neo-madri, fossero disposte                      ad aprire il discorso affrontandolo liberamente e senza imporsi                      falsi modelli idealizzati, un po’ come accadeva quasi                      una trentina di anni fa, epoca a cui risalgono i testi che                      riporto qua sotto: opera di donne – Carla Lonzi, scrittrice                      e fondatrice di Rivolta Femminile e Adrienne Rich, poetessa                      americana – che hanno avuto il coraggio di dire/scrivere                      l’indicibile a nome di tante, troppe altre.
Dal                      diario di Carla Lonzi “Taci, anzi parla”, 1978
 (Ed. Scritti di Rivolta Femminile)
Mi                      dicevo anche “Se non sto un po’ con Tito (il figlio)                      butto via la mia vita, ho dedicato più tempo e più                      tutto a Rivolta che a lui” e mi si scatenava un rimpianto                      per cui lo volevo vedere subito, stare con lui, occuparmi                      di lui. E poi capivo che era un desiderio di fuga, di non                      affrontare, di evadere…
 La maternità è una dilatazione senza fine alla                      realizzazione di sé. Da che ho Tito i miei sforzi sono                      sempre stati infruttuosi o temporanee scappatelle che non                      mi hanno portato alcuna certezza sulla mia vita visto che                      dovevo comunque tornare all’ovile.
 Prima di addormentarmi pensavo che tutt’ora trovo penoso                      tutto quello che riguarda la famiglia, ma non ho alternativa:                      sono tornata lì. E’ un po’ come morire                      ammettere che non c’è altro modo di applicare                      le proprie energie che i rapporti famigliari.
 Devo accettarmi, il problema è sempre quello. Ho sognato                      troppo da ragazza: ho sognato una vita eccitante, avventurosa,                      erotica, e ancora non so staccarmi da quei sogni, anche se                      all’atto pratico non mi rivelo affatto all’altezza                      dell’eroina che dovrebbe viverli. La famiglia non faceva                      parte dei miei sogni. Per questo la subisco come un incidente                      provvisorio e non mi accorgo che è una realtà                      dentro di me.
 Solo occasionalmente mi adattavo a fare la madre o la moglie.                      Dentro di me ero la figlia prediletta di Simone (il marito).                      Quando arrivano i figli veri mi accorgo che sono una comparsa,                      che la famiglia vera è la loro. Allora io chi sono?                      La sensazione più sgradevole è quella di non                      avere più niente di mio, che devo subire l’invasione                      del mio territorio, che devo cedere i miei diritti. Mi lamento                      della cosa con Simone che tergiversa per non irritarmi. Non                      dice mai “Sì, è insopportabile che gli                      altri facciano scempio delle tue cose, mettano disordine nella                      tua vita, ti costringano a fare da madre, ispettrice e non                      so più cos’altro. Non è giusto, io sono                      il tuo alleato”. Questo non succede mai.
 Adesso, a quarantaquattro anni, che prospettive ho? Continuare                      come adesso, una vita divisa tra affetti familiari, amiche                      e lo scrivere. Oppure? Mettermi di nuovo allo sbaraglio, don                      Chisciotte sola contro tutti, per afferrare qualche emozione,                      qualche attestato di autonomia, sacrificare il mio benessere                      ad un ipotetico incontro erotico. Ecco tutta la variazione                      possibile nella mia vita: cercare un nuovo amante.
Da                      “Nato di donna” di Adrienne Rich, 1977
 (Ed. Garzanti)
I                      miei figli mi danno le più squisite sofferenze che                      mai abbia conosciuto. E’ la tortura dell’ambivalenza:                      il dilaniante alternarsi di amaro risentimento ed esasperazione,                      e gioiosa gratificazione e tenerezza. A volte, nei miei sentimenti                      verso questi piccoli esseri innocenti, m vedo come un mostro                      di egoismo e di intolleranza. Le loro voci mi logorano i nervi,                      le loro continue necessità, soprattutto il loro bisogno                      di semplicità e di pazienza, mi riempiono di disperazione                      per le mie inadeguatezze, e anche per il mio destino che mi                      impone di assolvere un compito per il quale non sono adatta.                      E talvolta mi sento sfibrata dalla rabbia soffocata. Ci sono                      momenti in cui ho l’impressione che solo la morte ci                      libererà l’uno dall’altro, momenti in cui                      invidio la donna sterile
 che si può permettere il lusso dei rimpiantimi vive                      una vita autonoma e libera.
 Eppure in altri momenti mi sento sciogliere di fronte alla                      loro bellezza inerme, affascinante e irresistibile, alla loro                      capacità di amore e fiducia costanti, alla loro lealtà,                      onestà e spontaneità. Li amo. Ma la sofferenza                      è nell’enormità e nell’inevitabilità                      di questo amore.
 Quello strano istinto primitivo di protezione, l’animale                      che difende il suo cucciolo di fronte agli attacchi o alle                      critiche. Mentre nessuno è più duro di me verso                      di lui!
 La degradazione della rabbia. La rabbia di fronte a un bambino.                      Come imparare ad assorbire la violenza e a mostrare solto                      l’affetto? Lo sfinimento della rabbia. Vittoria della                      volontà ad un prezzo troppo alto… troppo, troppo                      alto!
 Forse sono un mostro, una anti-donna, un essere fanatico che                      non può aggrapparsi alle normali, dolci consolazioni                      dell’amore, della maternità, del piacere degli                      altri…
 Ricordo uno schema classico, che risale a diversi anni fa.                      Il meccanismo scattava quando prendevo in mano un libro o                      cominciavo a scrivere una lettera, o persino quando parlavo                      al telefono con qualcuno e il mio tono indicava interesse                      e simpatia. Il bambino era magari occupato in cose sue, o                      perso nelle sue fantasticherie, ma nel momento in cui mi sentiva                      sfuggire in un mondo in cui lui non era incluso, veniva a                      prendermi per mano, a chiedermi aiuto, a toccare i tasti della                      macchina da scrivere. E in quei momenti le sue necessità                      mi apparivano quasi fraudolente, un ulteriore tentativo di                      privarmi anche di quel quarto d’ora tutto mio. La rabbia                      mi cresceva dentro, avvertivo la futilità di qualunque                      tentativo di salvarmi, e anche la disuguaglianza tra noi;                      le mie necessità, sempre perdenti, contro quelle di                      un bambino.
 Mentre scrivo i primi raggi del sole illuminano la collina                      e le finestre volte a oriente… Mi sono alzata con il                      bambino alle 5,30, gli ho dato da mangiare e ho fatto colazione.                      E’ una delle poche mattine in cui non sento una terribile                      depressione mentale e fisica.
 … per anni sono stata convinta che non avrei mai dovuto                      essere una madre, e poiché percepivo acutamente le                      mie esigenze e spesso le esprimevo con violenza, ero Kali,                      Medea, la scrofa che divora i suoi piccoli, la donna non femminile                      che respingeva la femminilità, un mostro alla Nietzsche.                      Perfino oggi, rileggendo vecchi diari, rammentando, provo                      dolore e rabbia, ma non più diretti a me stessa e ai                      miei figli. Provo dolore di fronte allo spreco di me stessa                      in quegli anni, rabbia di fronte alla mutilazione e manipolazione                      dei rapporti tra madre e figlio, che è la grande fonte                      originale dell’amore e sua esperienza.
 Ma la maternità, così come è concepita                      dal patriarcato non è la “condizione umana”                      più di quanto lo sia la violenza carnale, la prostituzione                      o la schiavitù. (Coloro che più parlano della                      condizione umana di solito sono più esenti dalle sue                      oppressioni, siano esse dovute al sesso, alla razza o al servaggio).
 La maternità, nel senso di un intenso rapporto reciproco                      con uno o più bambini, è una parte della vita                      femminile, non è un’identità permanente….                      Ma non è sufficiente staccarsi dai figli, dobbiamo                      avere un nostro io a cui tornare.
 Ero una madre irrequieta, impaziente, stanca, discontinua,                      lo shock della maternità mi aveva lasciata stordita;                      ma sapevo di amare appassionatamente quei tre giovani esseri.
 Per una donna creativa, come per una donna povera, il figlio                      può essere visto come una tragedia, come un “nemico”.
 Questo profondo conflitto tra autoconservazione e istinto                      materno può essere vissuto –è successo                      anche a me– come una lacerazione. E questo non è                      il minore dei dolori della maternità.
 … ciò può anche portare ad una vita in                      cui una donna non risolve mai l’alternativa, in cui                      cerca di recitare sia la parte della buona moglie, come ha                      fatto sua madre, sia di scrivere il suo romanzo o la tesi                      di laurea. Ha cercato di uscire dagli schemi esistenti ma                      non si è spinta abbastanza in là, di solito                      perché nessuno le ha detto fino a che punto poteva                      arrivare.
-PUOI ESSERE TUTTO CIO’ CHE VERAMENTE VUOI ESSERE- SE SEI DISPOSTA A LOTTARE, A CREARTI DELLE PRIORITA’ CHE VANNO CONTRO LA CULTURA PREVALENTE, A PERSISTERE ANCHE DI FRONTE ALLA RIVALITA’ MISOGENA.
Alina                    Rizzi
 http://www.segniesensi.it


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