ndr. Eleonora Bellini
Propongo al sito la recensione che segue scritta da F. Omodeo Zorini, presidente dell’Istituto Storico della Resistenza in provincia di Novara. Vi si parla di un libro che ci riconduce al momento dell’industrializzazione in una zona periferica del Piemonte Orientale, al confine con la Svizzera, quell’Ossola della mitica Repubblica partigiana che durò dal 9 settembre al 22 ottobre del 1944. Le donne che incontriamo qui sono ben diverse dalle inconsistenti immagini mercificate e/o rampanti che quotidianamente ci invadono dagli schermi televisivi, dalle immagini pubblicitarie, dal regno del mercato, insomma. E, nell’imminenza della festa della donna, è bene ricordarlo senza retorica e senza rimpianti, E. B.

VIRGINIA PARAVATI
Quello che siamo state. Storia e memoria di donne in fabbrica.
Lo iutificio di Villadossola (1900-1950),
Provincia VCO, 2009, pp. 250.

L’edizione è stata assai meritoriamente promossa dalla Consigliera di Parità e dall’Assessorato alle Pari Opportunità della Provincia del Verbano Cusio Ossola.
L’Autrice, ampliando l’elaborato della propria tesi di laurea, ricostruisce mezzo secolo della Sasa, acronimo di Società Anonima Saccherie Agricole. ‘L fabricùn, tetti a dente di sega, per due terzi maestranze al femminile, supererà le 500 unità all’indomani della Liberazione, rappresentando un decimo della popolazione operaia della “piccola Manchester” della Val d’Ossola: Villadossola (di appena diecimila abitanti), “primo fuoco che si accese” alla guerriglia antifascista e antinazista del nostro Paese con la cruenta insurrezione popolare, operaia e partigiana del 7 novembre 1943.
D’un fiato s’è inquadrato l’oggetto e lo scenario del saggio, la cui garanzia di qualità è data dalla continuità tematica con la precedente apprezzata prova dell’A.: Aspettando la luna nuova. Dialoghi sul sapere delle donne a Ornavasso nella prima metà del Novecento (Verbania, Alberti, 2007). Scientificità ancor più validata dalla molteplicità delle fonti archivistiche, bibliografiche e orali compulsate, così come dal peso del tutor che ha avuto negli studi Virginia Paravati: il professor Claudio Dellavalle, una delle massime autorità accademiche in materia, docente di storia contemporanea all’Università di Torino e Presidente del confratello Istituto della Resistenza piemontese nonché Vicepresidente dell’Istituto nazionale per la storia del Movimento di Liberazione in Italia.
L’A. ripercorre sinteticamente le coordinate del processo d’industrializzazione in Ossola nel volgere di due secoli, restringendo via via l’obiettivo su quell’unicum – in un distretto di metallurgia (Sisma e Ceretti) e chimica (Set, poi Montecatini, e Distillerie Italiane) – costituito dalla saccheria per tele d’imballaggi, teloni, cordami, sacchi e tappeti, che fu la Sasa. Si concentra con efficacia sulle cardatrici addette alla scarpinatura della juta, sulle filatrici, tessitrici, scaricatrici, bobinatrici, aspatrici, sulle cops addette alle spole, sulle mezzanti dal basso profilo di mestiere. Ascolta i loro affanni, aspirazioni e le loro conquiste. L’attenzione si focalizza quindi sull’ultimo decennio di funzionamento della fabbrica, coincidente con il periodo della seconda guerra mondiale e il lustro successivo, soffermandosi con acutezza infine sul tormentato ultimo anno di aspre battaglie sindacali e di definitiva irreparabile capitolazione, sancita nel clima di riflusso postresistenziale. Arrivano congiunture, ahinoi, nel rotolio dei tempi, nelle quali si collassa fino a regressioni in cui si assiste allo scambio del governo con il comando, del comando con il potere, del potere con il dominio. Più che per forza altrui per incapacità nostra.
E’ una memoria celata quella che l’A. va a disvelare. Interrogando il silenzio par di vederle affiorare dal buio fondale di una negazione irriducibile, riapparse, per il solo momento della parola viva (come la centoduenne Giacomina Toni), dall’opacità del recinto domestico: una turba di operaie-montanare autoctone e immigrate (trenta sono le deposizioni testimoniali), il cui legame con la Storia segue un andamento carsico di infossamenti e risalite tra privato e pubblico. E in paritempo emerge il nondetto soffocato, represso. Come annegate gonfie di annullamento, vengono a noi dall’alveo di gelo notturno dell’Ovesca, murate nella loro icastica diversità, un’identità lavica con tracciati esistenziali di sacrificio e riscatto, pericolo e autonomia, e, da un limo profondo, sembrano mandarci il messaggio che la Storia stessa non è tutto. Perché “la differenza femminile – ha notato Wanda Tommasi – eccede anche, in parte, la storicità, e allude a una trascendenza del femminile, all’apertura di quest’ultimo verso possibilità inesplorate e non previste dalla prospettiva androcentrica”.
La specificità della donna, delle donne, di queste donne operaie, ci sta dicendo l’A., non è riducibile al genere, né alla condizione sociale ed economica, né all’insieme di valori qualità ruoli che si sono storicamente in loro sedimentati, quando afferma che obiettivo della ricerca è mantenere viva la memoria e mettere in luce il travaglio individuale e collettivo in cui esse hanno abitato, per dar forma e moto al cammino di trasformazione della comunità. Vicende che s’innestano al sommitale dell’albero grande della Resistenza e dell’antifascismo. E’ il noi che vince, non la singola grama vita della persona.
Donne che, dopo aver retto l’home front il fronte casalingo di ben due guerre mondiali, vengono umiliate nel 1950 con lo smantellamento della fabbrica (ma è pur storia del presente) dopo sette mesi di lotta e occupazione, documentati nel libro con eloquenti fotografie d’epoca, e relegate all’angolo del focolare. In tal modo si disperde irrimediabilmente un patrimonio comune di socialità e cittadinanza politica, di itinerari di emancipazione dal girone dei dannati, che costituisce l’essenza della democrazia, dell’etica pubblica, dell’educazione a tuttotondo. Di qui l’amara riflessione in esergo di Maria che dà il titolo al volume: “Mi dispiace di una cosa. Noi non siamo state capaci di trasmettere quello che abbiamo fatto, quello che siamo state”. Sconfitta che brucia, per chi è stato titolare del proprio io desiderante. Muro che sbarra la vista. Impedisce il passaggio di testimone tra generazioni.
E questo potrebbe bastare.
Tuttavia per contrasto, è dovere osservare, come la nobiltà di queste proletarie che misero a investimento la grande forza segreta delle loro anime e dei loro corpi logorati fin dall’età infantile dalla polvere del telaio, da malnutrizione e spossamento, da broncopolmoniti, asme e tisi, dai cosiddetti “aborti spontanei”, risalta maggiormente oggi, in un panorama da regime mascherato, dominato dalla scontornata galassia del mercimonio, tanto sfavillante quanto impudente, della femminilità. Panorama ributtante, nel quale, persino baldracche in tenuta da combattimento sono abilitate a posare sugli scranni della rappresentanza democratica il loro più cospicuo e ambito tesoretto, quello perineale.
No, non si dovrebbero mai mélanger les torchons et les serviettes mescolare gli stracci con le salviette, raccomandavano i vecchi delle nostre parti, insomma non bisogna confondere i valori.

Francesco Omodeo Zorini

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