Francesca Santucci
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Sono belle le bambole, sono come bambini, sono il sogno, l’illusione della realtà.
Sono eterne, immortali, perfette, nulla le scalfisce, nessun evento doloroso o impuro le ferisce, non le segna il tempo. Stanno lì, con le morbide chiome bionde o rosse o brune, gli occhi cerulei, verdi, scuri, stupefatti verso il mondo, tutto a vedere, nulla a guardare. Contrariamente ai bambini, però, le bambole non crescono, non invecchiano, non muoiono mai, perciò, dunque, sono anche rassicuranti.
Similmente emozionano, danno gioia, che si sia bambine o adulte, commuovendo chi è figlia, chi è madre, chi non lo è più, chi non lo è mai stata, ma, in fondo, tutte le donne sono madri sempre e per sempre, anche quando tra le braccia stringono non un bambino in carne ed ossa, ma un suo simulacro, perché è questo l’unico vero motivo per cui piacciono le bambole: somigliano ai bambini, amiamo in loro i bambini, amiamo in loro i bambini che siamo stati, ne amiamo lo stato d’innocenza, l’incoscienza dell’età spensierata irrimediabilmente trascorsa.
Ed era sicuramente la bambola il gioco preferito un tempo dalle bambine, ma restava oggetto caro anche nell’età adulta. L’attendevano con trepidazione in dono (che la portasse la Befana, Babbo Natale o Santa Lucia, per un compleanno o un onomastico); le acconciavano i morbidi capelli in mille fogge diverse; con avanzi di multicolori rasi, voiles, cotoni, pizzi, merletti e nastri s’improvvisavano sarte e cucivano gonnelline e camicette, culottes e cuffiette, la stringevano fra le braccia per una malattia immaginaria, la cullavano per farla addormentare, piangevano mortalmente addolorate quando, intera o una sua parte, si rompeva, assecondavano il loro istinto materno e, mamme ancora da divenire, riversavano sul caro oggetto il loro affetto, come se davvero fosse stata una loro creatura. La bambola non era solo un giocattolo, era il sogno, la realtà da divenire; in età adulta, poi, per chi continuava ad amarle, avendo avuto o meno bambini in carne ed ossa, era la prosecuzione del sogno, l’illusione della realtà.
Ciò che era delizia della bambina, diveniva, pur essendo trascorsa l’età dei giochi, anche quella della donna, amando conservarla con gran cura, disponendola in atteggiamenti gentili o sbarazzini, nel salotto o in camera da letto, trasformandola in oggetto decorativo, nato per abbellire la casa ed allietare l’animo col suo valore di piccola opera d’arte.
Si può dire che esistano le bambole da quando al mondo vi sono bambine in attesa di crescere e di divenire a loro volta madri, e diffuse alle più svariate latitudini e con i più diversi significati: nella preistoria, foggiate in pietra, senza arti né testa, o intagliate nel legno, o plasmate in argilla, o ricoperte di stracci e di foglie, o malamente dipinte; presso i Sumeri, simbolo di fecondità, offerte agli dei per propiziarsi la loro benevolenza dalle spose desiderose d’un bimbo e dagli agricoltori ansiosi per il loro raccolto; nell’antica Grecia e presso i Romani come balocco; anche Cortez, durante le sue eplorazioni nel Messico, osservò alla Corte di Montezuma che molte donne azteche tenevano tra le braccia delle bambole tinte a vivaci colori; commovente, poi, l’usanza delle madri pellerossa, alla morte d’un figlio prematuro, di recarne indosso, per tutta la vita, i pupazzi, come se quelle cose inanimate racchiudessero un palpito delle loro creature. E ancora oggi in Giappone, dove si fabbricano eleganti ed artistiche bambole, grande onore è attribuito sia alle bambole che ai bambolotti: infatti vengono celebrati due volte l’anno (il 3 marzo le bambole, il 6 giugno i bambolotti), in una festa detta Hinamatasuri, e quando “muoiono”, cioè si rompono, vengono seppellite con un lungo cerimoniale.
Nell’antica Roma, verso la fine dei Saturnali, antica festività religiosa romana, era consuetudine scambiarsi doni fra amici: i fanciulli ricevevano bambole e pupazzi di terracotta, di cuoio,d’osso o di stoffa, rozzamente foggiati, che sarebbero stati i loro giocattoli durante l’annata. Naturalmente per i figli delle famiglie patrizie le bambole erano più pregiate e più costose, di cera, d’avorio,o di legno scolpito e dipinto, e non di rado ripetevano, nelle vesti e nell’acconciatura, la moda dell’epoca; adornati di monili d’oro ed accompagnati da un vasto repertorio di suppellettili (mobili, piattini, bacili, ecc.) servivano ad accrescere nelle fanciulle non solo l’ illusione di essere piccole mamme, ma anche quella di essere brave padroncine di casa. Giunte in età da marito, le fanciulle portavano infine le compagne dei loro giochi all’altare di Venere, affinchè la dea le assistesse nella difficile scelta d’uno sposo.
Nell’antichità, tuttavia, le bambole non erano solo balocchi per fanciulli, ma potevano essere anche ex-voto, che i fedeli conservavano nei recessi più sacri della loro casa o appendevano nei santuari per propiziarsi le divinità; ad esempio, presso gli antichi Egizi venivano poste nelle tombe statuette di argilla, di bronzo, di alabastro, o di smalto, dalle gambe e dalle braccia articolate, affinchè questi piccoli simboli dell’uomo aiutassero il defunto a sentirsi meno solo nel lungo viaggio ultraterreno; con analogo significato probabilmente gli antichi abitanti del Perù le ponevano nelle tombe dei loro cari.
Poco si sa delle bambole dell’età medioevale, che non ci sono giunte perché, probabilmente, fatte in materiali molto fragili, ipotesi, questa, che sarebbe suffragata da un miracolo attribuito a Santa Elisabetta allorché era ancora bambina: secondo gli scrittori, infatti, avrebbe lasciato inavvertitamente cadere le sue bambole e queste, prodigiosamente, non si sarebbero rotte.
Forse, in quell’età così pia, le bambole, più che balocco, dovettero essere considerate alla stregua di angeli o santi.
Durante il Rinascimento la bambola si diffuse moltissimo in Italia e in Francia, divenendo uno splendido oggetto d’arte, che le dame non disdegnavano di ricevere in dono al pari delle fanciulle; il corpo era ancora primitivo, ma gli abiti che lo ricoprivano erano sontuosi e spesso preziosissimi, simili ai costumi delle dame dell’epoca.
Schiere di artigiani cominciarono a dedicarsi esclusivamente all’industria delle bambole, e a Limoges e a Parigi nacquero centri di produzione di bambole sempre bellissime, eleganti e costosissime; dal Rinascimento sino al XIX secolo ad Amburgo e Norimberga si fabbricarono e si esportarono in tutti i paesi d’Europa bambole a buon mercato, senza braccia nè gambe, terminanti rozzamente in un cono.
Dal XIV secolo sino all’Ottocento le bambole ebbero anche un’altra funzione: quella, cioè, di suggerire alle mamme, attraverso il balocco della bimba, i nuovi dettami della moda: “le piavole (bambole) di Franza”, ad esempio, erano molto ricercate nel settecento dalle dame veneziane che, sui minuscoli manichini, avevano modo di conoscere le ultime novità della moda parigina.
Fu forse anche per questa ragione che la bambola, un tempo, fu quasi sempre atteggiata a donnina in miniatura e, come tale, vestita da tutta una schiera di sarte e di modiste specializzate nella confezione di costumi.
Nell’Ottocento, poi, sotto l’impulso dell’industria e della concorrenza, e procedendo nelle modifiche con un ritmo più accelerato, gli artigiani perfezionarono sempre più la lavorazione delle bambole, dapprima studiandone nuovi impasti (e a questo proposito importante fu l’adozione della cartapesta, introdotta a Norimberga nel 1860, in luogo del legno e della cera), poi perfezionando l’articolazione degli arti con la sostituzione ai fili di un sistema a pernio, in seguito dandogli, mediante un soffietto, la facoltà di parlare, e infine rendendone mobili gli occhi e acconciandole con capelli ondulati, veri oppure ricavati da una lana speciale che, se passata a bollitura, aveva la prerogativa di arricciarsi morbidamente. Alcune divennero tanto perfette che furono poste nei musei per essere conservate.
Verso la metà dell’Ottocento, in Germania, furono fabbricate le prime bambole che riproducevano dei bambini, e non degli adulti, ma fu all’inizio del Novecento che i migliori fabbricanti di bambole europei cominciarono a produrre i primi bambolotti caratterizzati, con corpi da bebè, articolati alle spalle, alle anche e al collo, con braccia e gambe piegate e con i visi atteggiati al sorriso, al pianto, alla smorfia, allo stupore.
E, nell’universo delle bambole, un posto particolare hanno, poi, sempre continuato ad occupare quelle che rappresentano i bambini molto piccoli, neonati e di pochi anni, affascinanti per l’estrema naturalezza dei tratti espressivi, per il realismo delle espressioni, simili a quelle tipiche dei bambini veri, e per la bellezza degli abiti: bambini sorridenti, imbronciati, tristi, con bocche chiuse o aperte a lasciar intravedere i dentini, persino la lingua ben modellata.
Ed è probabilmente a questo modello di bebè caractére che s’ispira la nuova realtà che ritroviamo oggi nel variegato mondo delle bambole, una novità che arriva dall’America, che ha già attecchito all’estero, che in Italia procede cautamente e un po’ fatica ad imporsi, che ha incondizionatamente conquistato il cuore di chi scrive: le Reborn.
Il reborn, termine che significa “rinascita”, è una tecnica artistica americana che consente di trasformare una semplice bambola in vinile in preziosa bambola da collezione, attraverso l’eliminazione della vernice originaria mediante solventi, il lavaggio delle parti ripulite e la nuova colorazione con olii, inchiostri o acrilici, con vari strati, sì da ottenere una tinta il più possibile naturale, ridipingendo accuratamente ogni dettaglio, sopracciglia, bocca, unghie, pieghette della pelle, inserendo occhi somiglianti a quelli umani (per i bebè che avranno gli occhi aperti, ma ci sono anche quelli ad occhi chiusi), incollando morbide ciglia, applicando sulla testa parrucchine sintetiche o capelli in mohair, inserendoli con la tecnica del rooting, cioè pochi alla volta, per un effetto più naturale, appesantendo il corpo in stoffa e gli arti con materiale plastico (c’è anche chi, addirittura, tra i vestiti inserisce un cuoricino che riproduce perfettamente il battito cardiaco), aprendo le narici per dare l’impressione della respirazione, infine procedendo alla vestizione, corredandola di accessori vari (ad esempio un succhiello, un biberon) e provvedendo alla scelta del nome.
Le bambole reborn si propongono, dunque, con fattezze infantili, neonati o bimbi, e, come i bimbi veri, morbido e profumato è il loro corpo, “carnose” le membra, naturali i colori, persino quello dei capillari evidenti e dei rossori somiglianti, appunto, a quelli dei neonati. Possono, inoltre, assumere, trattati, con ovvia delicatezza, s’intende, le più svariate posture, anche portare un dito alla bocca, hanno persino la testa ciondolante, perciò è necessario sorreggerle; ad occhi chiusi, socchiusi, spalancati, colti nell’abbandono del sonno, nella smorfia del pianto, nel sorriso spontaneo dell’innocenza, in pose strane e buffe, affascinano, indiscutibilmente, proprio per la somiglianza con i bambini, talvolta pure inquietano per l’identico motivo, cioè l’accentuato realismo, ma pure appagano il senso estetico, perché sono assolutamente belle.
S’intende che ogni atto creativo è generato da un moto del cuore, creare una bambola, poi, per le implicazioni emotive che sottintende, ancor di più, ma creare una Reborn, non giocattolo, trastullo infantile, bensì “oggetto” da collezione per adulti, piccolo capolavoro d’indubbio valore artistico, significa andare oltre, è “fare una bambola ad immagine e somiglianza di bambino”, e un bambino reale, o un suo simulacro, non può che suscitare emozioni gioiose, sentimenti positivi (tenerezza, desiderio di proteggere) e pensieri felici , non può che trasmettere un messaggio d’amore, e ciò nelle creazioni di Margherita De Giorgi, che alla sapiente abilità tecnica unisce una grande sensibilità di donna e di madre, non s’intuisce, ma balza prepotente agli occhi.
Dalle sue mani amorevoli scaturiscono, come per incanto, ma dopo lungo, attento, laborioso lavoro, anzi, “travaglio”, creature d’infinita dolcezza, in evidente realismo, ma senza ombra di artifizio (ed è questo che la differenzia da altre creatrici di Reborn), giacché riesce ad imprimervi una particolare aura di dolcezza che mitiga la forte caratterizzazione, pur mantenendo intatta, appunto, la somiglianza.
Mentre, come un demiurgo (un divino artigiano), le fa “rinascere”, anzi, no, proprio le crea, imprime loro persino un carattere; basta fare un salto nella galleria del suo sito , curiosare fra le creature adottate e da adottare per rendersene conto: placide, tranquille, stupite, impertinenti, lamentose, sonnacchiose, birichine, sorridenti, stanno Jared e Nadia, Andrea e Rossella, Avery ed Alice, tutte da stringere, coccolare, proteggere, proprio come bambini, giacché tanto simili sono a veri neonati che pare davvero che da un momento all’altro debbano respirare e sorridere e piangere e strillare.
Nessun dettaglio tralascia Margherita, accuratissima è la colorazione della delicata pelle, simile a quella naturale dei bambini, con grinze e rossori, capillari e venuzze, perfette manicure e pedicure, così tanto da sembrare vere unghiette, veri palmi delle mani, vere piante dei piedini, tutto esattamente a simulare, proprio come se fosse per davvero. Opera eccelsa dell’umano ingegno scaturita da un gesto d’amore, le bambole di Margherita veicolano un messaggio gioioso, di felicità: la nascita, i sogni da sognare, le illusioni da coltivare, i desideri da realizzare, dunque la vita in divenire.
E quando, poi, emozionata come una madre in erba, ho accolto fra le mie braccia una sua creatura, Tulip, della quale mi ero subito invaghita, dal primo momento in cui l’avevo vista (forse per una vaga rassomiglianza con me stessa bambina, la frangetta sbarazzina, la forma e il colore degli occhi, le ciglia così arcuate, la forma del nasino, la bocca piccolina, la linea del mento, il colorito roseo …ma, in fondo, poi, tutti i bambini si assomigliano), quando ho potuto vedere con i miei occhi quanto fosse bella e tenera, e morbida e profumata, ho provato sensazioni confuse, insieme di commozione e turbamento, tristezza e gioia, ripensando, appunto, alla bambina che sono stata, pensando alla spensieratezza dello stato dell’innocenza, l’eta infantile in cui si è distanti dal “dolore”, quando nulla può ferire e si è protetti, e pensando anche all’infanzia, purtroppo, variamente violata, avvilita, calpestata, nei nostri tempi crudeli.
Poi, però, riguardando i suoi occhi stupefatti, sfiorando con una carezza i suoi bei capelli d’un caldo castano, il volto così realistico, sapientemente tinto del colore della pelle dei neonati, come le manine delicate e i piedini e le unghiette, tutto amorevolmente curato in ogni minimo dettaglio, ho realizzato che solo un cuore sensibile di donna e di madre può “partorire” una simile creatura, e, nuovamente pervasa da sentimenti positivi, mi sono riconciliata con il mondo.
Riconfermo qui la mia ammirazione per il genio creativo di Margherita De Giorgi, e la ringrazio per il sogno, per l’illusione, e per tutte le emozioni belle e pure che sa donare.
Francesca Santucci
14 marzo 2008
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