Intervista ad una giovane e promettente scrittrice

La ricetta di un successo:
CRISTIANA BULLITA E IL SAPORE DELLA PRUGNA SELVATICA

pru 1 - IL SAPORE DELLA PRUGNA SELVATICA

Prendete un po’ di nostalgia, un pizzico di memoria spolverizzata di numerosi ricordi, autoironia quanto basta, annaffiate tutto con tanta leggerezza, guarnite con un tocco di poesia, infornate e fate cuocere a fuoco vivace con tanto sentimento per una vita almeno e avrete il piatto più gustoso che vi sia mai capitato: il libro dell’esordiente Cristiana Bullita dal titolo “Il sapore della prugna selvatica”, edito da DEd’A nel 1911.
Il romanzo, che si legge rapidamente grazie allo stile limpido e prezioso dell’autrice oltre che a d una buona dose di mistero, narra la storia di Patrizia che si è trasferita in America dopo la laurea, lasciando tra l’altro in Italia un amore forte, Paolo, e un passato irrisolto. E’ costretta, però, a rientrare in Italia, a Roma, richiamata dal cugino, Andrea. Patrizia che ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza nel quartiere di Cinecittà, negli anni Sessanta e Settanta, tra molteplici difficoltà legate al carattere schivo e all’ambiente scolastico élitario, farà finalmente i conti con il suo doloroso passato.

-Come sei approdata alla scrittura?
Ho cominciato a scrivere senza nemmeno pensarci, poco dopo essere inciampata su una frase di Giorge Eliot dall’ineludibile forza evocativa: “Non è mai troppo tardi per essere quello che potevi essere”. Quel seme ha cominciato a germinarmi dentro inquietudini che si esprimevano essenzialmente in una domanda: cosa potevo essere e non ero stata? Dopo aver passato in rassegna le mie determinazioni esistenziali (madre, insegnante, cittadina) l’ho scoperto, per caso, sedendo davanti alla tastiera di un PC. Ecco, potevo essere una scrittrice, perché no?

-In quali momenti della giornata scrivi? Hai una tabella di marcia? Prendi appunti su ogni tipo di supporto (scontrini, notes, buste ecc) o solo al PC?
Scrivo soprattutto in estate, o comunque nei periodi di vacanza, quando, allentandosi la morsa delle incombenze quotidiane, trovo tranquillità e concentrazione in “una stanza tutta per me”, come prescrive Virginia Woolf. Prendo appunti, in modo estemporaneo, su un’agenda che tengo sempre nella borsetta, oppure attraverso sms senza destinatario che poi salvo in “bozze”.

-A che cosa ti ispiri per i tuoi scritti?
Scrivo soprattutto di donne. Mi ispiro alla vita di quelle che conosco, o che ho fugacemente incrociato, spesso donne mature che guardano al proprio passato con nostalgia, con rimpianto, ma anche con lucido disincanto o con l’incredulità di un superstite scampato ad un disastro. Donne però proiettate verso il futuro e già sulla rotta di una propria dimensione esistenziale che oggi non è più quella imposta dal ruolo e dall’età.

-Quali sono i tuoi scrittori preferiti? E i tuoi maestri?
Tra gli italiani voglio ricordare senz’altro, prima degli altri, Dino Buzzati. E poi, già oltre l’argine del millennio, De Luca, Carofiglio, Mazzantini, Mazzucco, Veronesi.
Tra gli stranieri rileggo sempre con piacere Goethe, e il meno classico Schnitzler. Ho amato indicibilmente Böll in “Opinioni di un clown”. Apprezzo molto la Duras e pure Marquez e Grossman. Leggo con molto piacere anche i racconti di Steven King. I miei maestri? Ho imparato e continuo ad imparare da tutti gli autori citati e da molti altri, compresi certi classici come Pirandello e Svevo che, ancor oggi imposti nelle scuole, rischiano sempre l’estromissione dall’orizzonte dell’interesse autentico…

-Secondo Pedro Almodovar “quando avvenimenti tragici sconvolgono la vita, bisogna tornare nel posto dove siamo nati, visitare l’eremo del santo, prendere il fresco con le vicine, recitare le novene con loro, anche se non si è credenti, altrimenti ci perdiamo per i campi come vacche senza campanacci”: scrivi perché sei infelice?
Diversi scrittori che amo hanno deciso un ritorno alle origini attraverso la narrazione.
Narrazione autobiografica, nel caso della Allende in Paula, e proprio a seguito di una tragedia che ha riguardato la figlia. Narrazione in gran parte autobiografica anche per la Duras che ne “L’amante” cerca la pace con memorie antiche e dolorose. Anche Khaled Hosseini torna alle proprie origini in Afghanistan, a braccetto con Amir, il protagonista de “Il cacciatore di aquiloni”.
Ho iniziato a scrivere, come dicevo, in un momento in cui sentivo l’urgenza di una mia definizione esistenziale. I miei testi sono molto più autobiografici di quanto sia disposta ad ammettere, quando scrivo parlo di me stessa anche se parlo d’altro. “Il sapore della prugna selvatica” mi riporta nel posto in cui sono nata, in un mondo di affetti e di relazioni che si è ormai estinto. Coltivo la speranza (illusione?) che averlo raccontato lo abbia in parte riportato in vita. Che niente e nessuno muoia se vive in un racconto. Scrivere può avere talvolta un carattere produttivo, e riproduttivo, in senso ontologico. Il racconto può diventare un risarcimento, un atto di restituzione, come ha scritto Emanuele Trevi. Forse è così che sono sfuggita al dolore, quello della vacca persa per i campi senza campanaccio. Appunto.

-Considerato il richiamo del titolo del tuo libro, che rapporto c’è, secondo te, tra cibo e letteratura? Il titolo ricorda quello della scrittrice rumena vincitrice del Premio Nobel per la letteratura 2009 Herta Müller, “Il paese delle prugne verdi”…
Se penso al rapporto tra cibo e letteratura, mi viene in mente la raffinata mescolanza di erotismo e culinaria della Allende in Afrodita. Quanto alla bravissima Müller, credo che le prugne di cui lei parla siano totalmente espropriate del loro originario valore nutritivo e di appagamento del gusto, e assurgano dolorosamente a simbolo della pulsione autodi-struttiva che ogni regime sanguinario alimenta. La prugna del titolo del mio libro è invece una metafora della verità, che ha talvolta il sapore di un piccolo frutto selvatico e asprigno.

-La paura di prendere l’aereo equivale a quella di fare i conti con il passato e crescere cioè “decollare”?
È certamente possibile una lettura “psicoanalitica” della fobia della protagonista, ricon-ducibile plausibilmente al “soffio gelido di un presentimento” che per buona parte della sua esistenza le ha imposto “quel rifugio nella lontananza delle miglia e dei pensieri divaganti”.

-Che cosa dà “sapore” alla vita?
Ah, tante cose! Il Brunello di Montalcino, i romanzi di Marquez, il ragù alla bolognese, l’odore di un neonato, le risate matte con le amiche, i tramonti di Santorini, il sesso appassionato. Non necessariamente in quest’ordine.

Fausta Genziana Le Piane

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