di Cristiana Bullita

Platone nella Repubblica ripropone un mito fenicio secondo il quale gli uomini –tutti fratelli– sono originariamente suddivisi in tre stirpi: aurea, argentea e ferro-bronzea. A ciascuna natura corrispondono le tre classi dei governanti-filosofi, dei guerrieri e dei produttori (contadini e artigiani), tutte necessarie allo Stato. Il racconto spiega le diverse capacità e attitudini degli uomini, pur nell’originaria uguaglianza. Il dio che li modellò e li forgiò nelle viscere della terra con metalli diversi destinò così ogni individuo a un diverso percorso formativo e a un diverso approdo “professionale”. Non è affatto detto, spiega Platone, che da genitori aurei discendano figli aurei, né che genitori bronzei debbano necessariamente generare contadini od operai: la mobilità sociale nella Repubblica è garantita. E’ compito dell’educazione rivelare ai giovani il metallo del quale sono impastati. Questa funzione è essenziale per evitare che chi non ne ha le capacità assuma compiti di comando perché, come dice l’oracolo, la città andrà in rovina quando al governo saliranno politici impastati di ferro o di bronzo (ecco spiegato il dissesto etico-politico della nostra epoca, con le tante facce di bronzo che circolano in Parlamento…).
Quando, sempre nella Repubblica, Platone si propone di definire la Giustizia, egli sostiene che essa è la virtù di adempiere bene al proprio compito di cittadino, quale esso sia. Se non si rispettano le attitudini conferite dalla natura si fa un danno alla collettività. Se si hanno le capacità per essere un calzolaio, ci si deve sforzare di essere un ottimo calzolaio, senza pretendere di diventare un soldato, perché si diventerebbe un pessimo soldato. Se si hanno i requisiti del soldato lo si deve fare al meglio, e non vagheggiare incarichi e posizioni direttive. Il governo della città deve essere affidato ai “migliori”, cioè a coloro, di natura aurea, che ne hanno acquisito le competenze affrontando un lungo tirocinio formativo.
Quella di Platone è certamente una visione politica aristocratica, che ad un approccio superficiale può apparire insopportabilmente classista. Ma il suo modello si fonda sull’aristocrazia dello spirito e della ragione, non certo sul censo e sui diritti di nascita, ed assegna a ciascuno il proprio posto nella società sulla base delle diverse attitudini e abilità:

“Lo scambio dei ruoli e delle professioni tra le classi costituirebbe dunque un danno irreparabile per lo Stato, e non sarebbe errato definirlo un vero attentato”.
(Repubblica, IV, 434c)

E veniamo all’oggi.
Se un docente dice ad un ragazzo al termine del primo anno di un qualsiasi liceo che forse potrebbe più produttivamente applicarsi a studi di diversa natura, se tenta di riorientarlo verso una scuola più adatta alle proprie capacità ed inclinazioni viene considerato colpevole di disfattismo contro la Patria e minacciato di licenziamento dal dirigente-imprenditore che, nella scuola-azienda, ha naturalmente tutto l’interesse a non perdere lo studente-cliente, quale che sia il costo in termini di fatica e frustrazione che il poveretto sarà chiamato a pagare. A rinforzare la censura, si aggiunge di frequente l’indegna canea di cattocomunisti sostenitori della globalizzazione dei talenti, pronti ad agitare il fantasma della discriminazione.
Io resto dell’idea che per la collettività un ottimo cuoco sia preferibile ad un pessimo chirurgo, e un talentuoso pittore a un ingegnere discalculico… Senza dire dei vantaggi per l’autostima.
Tra gli intellettuali e nella gente comune sta prendendo piede, sostenuto da una normativa scolastica sempre più ideologica e falsamente “inclusiva”, un assunto ipocrita e pericoloso: siamo tutti uguali. Dunque, ciascuno può con profitto (e con la garanzia del risultato!) frequentare un qualsiasi liceo, o un qualsiasi istituto tecnico o professionale, prescindendo dalle capacità (il metallo del quale si è impastati!), dall’attitudine allo studio e all’applicazione costante, dagli eventuali disturbi specifici di apprendimento e bisogni educativi speciali (DSA e BES). I deficit scolastici, ritenuti sempre e comunque superabili grazie ad appositi strumenti dispensativi e compensativi, favoriscono di fatto (ben oltre le intenzioni del legislatore) il passaggio alla classe successiva. E i docenti allontanano così ogni imbarazzante residuo di un passato da classi differenziali.
Quello dell’educazione all’accettazione dei propri limiti è un discorso delicato e politically incorrect, che può suscitare insofferenza e irritazione. E può prestarsi ad equivoci marchiani. Che non si provi ad evocare il darwinismo sociale, prego! Nessuno dotato di senno e moralità può sostenere la concezione che sia la biologia ad assegnare agli uomini il proprio posto nella società, e non c’è bisogno qui di marcare le nostre distanze da una posizione tanto intollerante e retriva.
Credo, però, che chi riveste una funzione educativa debba prioritariamente insegnare a riconoscere e ad accettare i propri limiti. Così come a riconoscere e a potenziare i propri talenti che, esattamente come i limiti, appartengono ad ognuno di noi. Accettare i propri limiti fisici, cognitivi, emotivi significa considerarli, tenerli in debito conto nelle scelte della propria vita, perché essi non sono sempre superabili. Chi educa deve assolutamente evitare di dispensare pericolose illusioni che, quando cadono, fanno male davvero. Se una porta è sprangata, non suggeriamo al nostro allievo di sfondarla a testate: essa potrebbe comunque restare chiusa e lui procurarsi ferite gravissime. Invitiamolo piuttosto ad aprirne un’altra. E poi un’altra, e un’altra ancora. E poi altre cento, e mille. E facciamo che lo Streben si eserciti sull’orizzonte di possibilità spalancato da quelle porte.
Un educatore valido ed equilibrato spinge il giovane ad essere il meglio di qualunque cosa possa essere, però nella consapevolezza che nessuno di noi può essere qualsiasi cosa: nessuno di noi può aprire tutte le porte.
A sostenere la tesi che i limiti sono solo un’illusione frutto di una mentalità ristretta e discriminatoria, e che qualunque difficoltà individuale può essere superata con la volontà (che però spesso tra i banchi di scuola è debole) e con il sostegno sociale, mi si ricorda il caso della ballerina senza braccia. Premesso che in questo contesto l’handicap è un’iperbole, faccio notare che lei è balzata agli onori della cronaca perché costituisce un’eccezione. Una leggiadra, toccante, meravigliosa eccezione. Ma prima di incoraggiare una figlia nelle medesime condizioni a seguire il suo esempio, e prospettarle magari l’accesso al Teatro dell’Opera di Roma, ci penserei due volte.
Siamo davvero tutti uguali, tutti possiamo aspirare a raggiungere i medesimi traguardi? Ciascuno di noi può davvero assumere qualunque ruolo, esercitare qualunque professione, affrontare qualunque impresa senza pregiudizio per sé e per la società? Purtroppo no, ha ragione Platone. Perché, a dispetto di quanto vorrebbe certo ottimismo buonista e naïf, questo non è proprio il migliore dei mondi possibili. E l’educazione non può permettersi di spacciare per realtà le sue pericolose chimere sentimentalistiche.
Ringrazio chi, quando ero solo un’adolescente, ha stroncato sul nascere le mie timide ambizioni matematiche, e senza troppe accortezze (a suon di tre e di quattro nei compiti in classe) mi ha distolto da un percorso certamente velleitario ed autodistruttivo, risparmiandomi anni di frustrazioni e di insuccessi.
Ringrazio chi mi ha guidato verso la mia vera natura, chi mi ha consentito il ritorno all’oikìa, chi mi ha detto “diventa ciò che sei” (senza provare ad essere ciò che non potrai essere, o almeno validamente essere, era il sottotesto).
Grazie a chi non mi ha indicato la cima della collina dicendomi “sarai un pino”, ma ha riconosciuto e accarezzato amorevolmente un piccolo arbusto piantato nella valle…

IL MEGLIO
Se non puoi essere un pino in cima alla collina.
sii un arbusto nella valle, ma sii
il miglior, piccolo arbusto accanto al ruscello;
sii un cespuglio, se non puoi essere un albero.
E se non puoi essere un cespuglio, sii un filo d’erba,
e rendi più lieta la strada;
se non puoi essere un luccio , allora sii solo un pesce persico:
ma il persico più vivace del lago!
Non possiamo essere tutti capitani, dobbiamo essere anche equipaggio.
C’è qualcosa per tutti noi qui,
ci sono grandi compiti da svolgere e ce ne sono anche di più piccoli,
e quello che devi svolgere tu è li, vicino a te.
Se non puoi essere un’autostrada, sii solo un sentiero,
se non puoi essere il sole, sii una stella.
Non è grazie alle dimensioni che vincerai o perderai:
sii il meglio di qualunque cosa tu possa essere.
(Douglas Malloch)

Cristiana Bullita

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