di Cristiana Bullita
Platone scrive, tra il 380 e il 370 a.C.:
“Una persona assennata, feci io, si ricorderebbe che gli occhi sono soggetti a due specie di perturbazioni, e per due motivi, quando passano dalla luce alla tenebra e dalla tenebra alla luce. E se pensasse che questi medesimi fatti si producono pure per l’anima, quando ne vedesse una turbata e incapace di visione alcuna, non si metterebbe a ridere scioccamente ma cercherebbe di sapere se, venendo da una vita più splendida, sia ottenebrata perché disabituata; o se, procedendo dall’ignoranza a una condizione di maggiore splendore, si trovi ad essere troppo abbagliata.”
(Repubblica, VII libro)
Si tratta della parte conclusiva del famoso mito della caverna, nella quale Socrate -alla cui voce spesso Platone affida l’esposizione del proprio pensiero- ci esorta a non deridere quelli che ci appaiono “turbati e incapaci di visione alcuna”, perché le loro difficoltà potrebbero derivare dal fatto di provenire da “una condizione di maggiore splendore” rispetto a quella in cui sono precipitati e che noi stessi abitiamo.
Come i nostri occhi faticano ad adattarsi tanto alla luce, provenendo dal buio, quanto all’oscurità, provenendo da un ambiente luminoso, così è per la nostra anima. Allora dovremmo sempre chiederci da dove viene colui che nel nostro mondo arranca e barcolla, dovremmo chiederci se le sue difficoltà non sono forse solo lo specchio delle nostre. E la metafora organicistica può spingersi dagli occhi alle gambe e divenire quasi una metafora sportiva.
Le strade che quotidianamente percorriamo le abbiamo tracciate noi stessi, sono a misura dei nostri piccoli passi e dei nostri arti scarni. Ma se uno ha acquisito altrove una falcata lunga e poderosa, sui viottoli serpeggianti fa fatica a stare in equilibrio e nelle curve strette cade.
Forse, quelli che talvolta, nella nostra vita, abbiamo deriso con cattiveria e con malignità avevano semplicemente gambe più lunghe delle nostre, e in quelle gambe una spaventosa potenza inespressa. Ma erano costretti a competere con noi alle nostre regole e sulle nostre piste dissestate.
Se qualcuno appare in affanno accanto a noi, invece di sbeffeggiarlo o di compatirlo, chiediamoci perché: forse ci sta solo sorpassando in corsa verso il traguardo della conoscenza e della verità, con occhi che hanno visto ciò che i nostri non sono ancora in grado di vedere e gambe che molta più strada delle nostre hanno fatto.
Cristiana Bullita
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