20231105 212440 - Dove non mi hai portata. Mia madre, un caso di cronaca di Maria Grazia Calandrone, Giulio Einaudi editore 2022

 

Dove non mi hai portata di Maria Grazia Calandrone ha vinto quest’anno il Premio Elio Vittorini ed è stato incluso nella cinquina finalista del Premio Strega, sempre nel 2023. La valente narratrice e poetessa è da tempo affermata nel panorama letterario del nostro Paese. Il romanzo è bello e adesivo, nel senso che si inizia a leggerlo e non ci si vorrebbe staccare più fino all’ultima pagina. E allora, per non rischiare di ripetere quanto già è stato abbondantemente e felicemente scritto a suo sostegno ed encomio, proverò ad affrontarlo in modo un po’ diverso, col piglio severo di lettrice entusiasta ma puntigliosamente critica. Brevemente la storia autobiografica: nel 1965 un uomo e una donna abbandonano a Villa Borghese, a Roma, la figlioletta di otto mesi, inviano una lettera all’Unità, e poi si danno la morte nel Tevere. Molti anni dopo quella bambina, ormai intellettuale di successo, riporta alla luce il tragico fatto di cronaca, con tenacia investigativa e insieme, inevitabilmente, epidermica partecipazione, per ricostruirne gli antefatti e, dunque, l’inconcepibile perché.

Quel che mi è parso chiaro fin dalle prime pagine è che l’autrice culla e vezzeggia illusioni tenaci. Ad esempio attribuisce alla giovane madre una lucidità, una determinazione, un’intenzione protettiva attraverso la menzogna di cui il lettore lecitamente è portato a dubitare: Lucia continua a dichiarare che Maria Grazia è figlia legittima di suo marito, fino all’ultima lettera inviata all’Unità. Ma è per proteggere la bambina, e solo per quello, che lo fa? O forse magari pure per una comprensibile, estrema e disperata difesa del suo onore, o di quello che a quel tempo si riteneva tale? Così facendo rischia però di consentire all’orrendo Centolire – il coniuge rozzo e violento – di reclamare e di crescere la presunta figlia. La scrittrice ritiene sua madre e il suo compagno capaci di programmare e prevedere gli eventi con estrema razionalità. Ad esempio, avrebbero rimandato il suicidio calcolando perfettamente i tempi in modo che la figlia avesse raggiunto un’autonomia tale da consentire un affidamento subito efficace, ma nello stesso tempo non fosse abbastanza consapevole da subire il trauma dell’abbandono. Oppure, l’ultimo giorno a Roma, avrebbero seminato intenzionalmente indizi dilazionati per suscitare interesse nella stampa e aumentare così le probabilità di una collocazione rapida e sicura per la piccola. Calandrone arriva a definire il suo abbandono «un progetto intelligente» (per convincercene evoca l'”intelletto d’amore” dantesco), benché a chi legge appaia invece macchinoso e gravido di rischi: ad esempio, se la lettera dei genitori al giornale non fosse mai arrivata, per un disguido postale non difficile da ipotizzare, la propria identità sarebbe forse rimasta un mistero per sempre.
Calandrone descrive quasi come un’epopea la tragica vicenda della sua famiglia, che viveva ai primi anni Sessanta del Novecento nelle zone rurali degli Abruzzi e Molise (così era indicato allora quel territorio), in un fondo di mortificante povertà economica e culturale; un’epopea in cui gli eroi nascono e muoiono ai margini della Storia. Lo sguardo retrospettivo della scrittrice/figlia è intriso d’inevitabile pietà per la madre e per se stessa, pietà che però le fa perdere il contatto con «l’osso del reale», avvolto in un velo sottile ma palpabile di vagheggiamenti sentimentali.

Questo romanzo dice di brutali ingiustizie e sopraffazioni operate dai maschi: il padre e il marito di Lucia; e di intenzioni nobili e scelte coraggiose della giovane e, in parte, del nuovo compagno di lei, nonché padre di Maria Grazia. Ma forse, a ben guardare, le intenzioni erano solo larvali e le scelte inconsapevoli, obbligate o addirittura sconsiderate. La gravidanza adulterina ha decretato, a quei tempi e in quel contesto socioculturale deprivato, gli avvenimenti successivi, compresa purtroppo la tragedia finale; il moralismo mortifero e il diritto di famiglia dell’epoca (con il connesso reato di adulterio), che si legittimavano reciprocamente, non hanno lasciato scampo a una coppia che oltre alla riprovazione sociale aveva il più concreto problema di dover sopravvivere senza un’occupazione stabile nell’ostile indifferenza della periferia milanese. La flebile ribellione dei protagonisti – all’autrice quella di Lucia pare invece eroica – non è bastata a contrastare la ferocia bigotta delle leggi, dei costumi e della morale, e a impedire lo sconvolgente epilogo. Insomma, l’amore della figlia per quella madre a cui è stata strappata davvero troppo presto le ispira una bella e commovente ricostruzione delle sue origini, che, tuttavia, mi appare edulcorata e addirittura mitizzata, non nel linguaggio ma nel sentire, e troppo distante dalla scabra crudezza dei fatti.
Tutta l’indagine sul giorno e l’ora esatta della morte dei genitori o dell’invio della lettera all’Unità a che serve? Forse l’autrice annida davvero dentro di sé il dubbio che possa essersi trattato di un incidente, di un involontario «scivolamento in acqua», o pensa che qualcuno – addirittura suo padre – abbia deliberatamente gettato «a Fiume» sua madre? In effetti l’autrice prende in considerazione anche queste ipotesi, ma solo per una loro reductio ad absurdum; nella sua appassionata disamina, lei utilizza infatti una tecnica dialettica, antilogica.

Mi chiedo quindi fin dove sia lecito spingere l’ostinazione di una lettura integralmente indulgente quando sono in ballo affetti primari come quello di una madre per sua figlia, quando sembra disatteso l’imperativo categorico dell’accudimento, della cura, che è imperativo biologico prima che razionale. Quando sulla ragionevolezza della legge morale e sull’istinto naturale prevalgono la resa e la rinuncia, un’infante viene abbandonata a otto mesi su un prato romano – sia pur a Villa Borghese, all’ingresso monumentale di Piazzale Flaminio, luogo in cui l’autrice vuol leggere ancora una volta un intenzionale messaggio di materna provvidenza –.

A me pare che la comprensibile benevolenza di quella bimba cresciuta e, forse, pacificata faccia velo al nucleo più duro e intollerabile della realtà. Nel testo, infatti, non c’è traccia di rabbia, sentimento riprovevole per i molti che eleggono perdono e conciliazione a fari della propria esistenza; i fari però, come si sa, possono pure accecare. Quanto sarebbe lecita la rabbia in chi viene privato della primaria fonte di amore, di quella copula mundi che è la propria madre, e per scelta di lei, per giunta? Si può provare risentimento anche verso chi ci ha lasciati senza averlo deciso, per una malattia o un incidente, figurarsi per chi lo ha fatto deliberatamente. Forse in Calandrone il largo lasso di tempo tra gli avvenimenti raccontati e la sua riflessione sugli stessi ha consentito di stemperare i sentimenti più immediati e viscerali. Oppure lei li ha semplicemente rimossi; tuttavia la nausea violentissima che la coglie sul luogo dell’abbandono sembra smascherare il meccanismo di difesa intrapsichico. Il lettore (almeno io) avverte l’assenza di sentimenti negativi come una mancanza, una reticenza, un non detto.

Dall’analisi degli oggetti rinvenuti nei bagagli degli amanti suicidi, l’autrice non riscontra «alcun segno d’indigenza terminale». E allora perché decidere di andarsene da questo mondo lasciando sola quella figlia di pochi mesi bisognosa del loro amore? Come non provare – da vittima – un tardivo e insensato guizzo di ribellione, almeno un’obiezione postuma? Niente di tutto questo. Calandrone rinviene invece ovunque tracce di un amore indubitabile, anche dove non ce ne sono: ad esempio, il mancato ritrovamento di una carrozzina attesterebbe la volontà di Lucia di non perdere mai il contatto fisico con sua figlia. E invece pare all’autrice di cogliere inesistenti insinuazioni «acidule» nella stampa di allora: nello stralcio da lei riportato non mi pare infatti che N.C. intendesse collegare causalmente l’abbandono della figlia all’intenzione suicidaria dei genitori.

Calandrone nega che Lucia sia stata «un’amabile sempliciotta di campagna» e Giuseppe «un dongiovanni navigato». Bolla queste idee come pregiudizi e invece è proprio quello che emerge dai «puri fatti» che lei stessa rievoca. Ma ciò nulla toglie al coraggio e alla disperazione dei suoi genitori. E al loro imperituro reciproco amore.
Dove non mi hai portata è, come ho già detto, un romanzo che prende e non molla fino all’ultima riga. Anche in certe digressioni storiche, paesaggistiche e letterarie la noia resta ben distante (ma il minuzioso tracciamento della lettera all’Unità risulta un po’ lungo).  Il linguaggio è ricco e affascinante, carico di termini rari e desueti, ma mai lezioso. L’unica leziosità, se proprio si vuol cavillare, è data dagli a capo e dalle spaziature poco consoni alla prosa e oggetto di un’opportuna avvertenza dell’editore. Calandrone osa con le parole, le lancia in aria come il giocoliere fa con le palline, e le riafferra dopo mirabolanti piroette. Le agita, frulla, rimbalza e le mette in equilibrio sul corpo del testo con disinvolta perizia. Ci commuove citando cose dal sapore antico: Vespa, Standa, Biancosarti, Facis…Il racconto è ben amalgamato in un impasto di esistenze individuali e di storia collettiva che non manca di lievitare nei ricordi di chi ha cinque o sei decenni sulle spalle. Ricordi che, nella loro nuova fragranza, c’inducono un moto incoercibile di gratitudine verso questa brava scrittrice e donna coraggiosa.

Cristiana Bullita

 

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